Intervista a Carlo Deri: Musiche oggi, purezza stilistica o contaminazioni?
Musiche oggi, purezza stilistica o contaminazioni? Problematiche dello scrivere, del fare e dell’organizzare musica
Il materiale di questa intervista è stato pubblicato in Renzo Cresti, Fare musica oggi: difficoltà e gioie, Marco Del Bucchia Editore, 2010
(http://www.delbucchia.it/libro.php?c=234)
(http://www.renzocresti.com/dettagli.php?quale=9&quale_dettaglio=44#)
Renzo Cresti – In riferimento alle difficoltà del comporre oggi si parla in genere di Postmoderno, ma s’è parlato anche di “nuova-semplicità” e, in Italia, di “neoromanticismo”. Che cosa pensi di queste nuove coordinate culturali?
Carlo Deri – La prima volta che mi vidi affibbiare l’etichetta di “postmoderno” fu durante le prove della mia Sonata per due flauti e pianoforte, a metà degli anni Ottanta, e la cosa non mi dispiacque, ma non mi fece neanche piacere: semplicemente mi lasciò indifferente. Non ho mai amato questo genere di classificazioni, che rischiano di banalizzare, di rendere generico, il complesso e mutevole mondo creativo di un artista .
È evidente che già allora il periodo della sperimentazione – quella “dura”, quella che voleva stupire, scuotere il pubblico – si era già avviato a conclusione. Ciò nondimeno non bisogna disconoscere l’alto valore di quegli esperimenti (anche se spesso più sul piano filosofico che su quello strettamente artistico) che comunque hanno avuto il merito di scavare nell’entità stessa del suono e di studiare e inventare nuove tecniche, preparando il terreno a chi è venuto dopo.
RC – A livello organizzativo (cioè politico ed economico) quali difficoltà si incontrano?
CD – Enormi. Al giorno d’oggi, almeno in Italia, organizzare un concerto o una manifestazione è un’impresa molto ardua. Non c’è paragone con gli anni Sessanta, Settanta, Ottanta. L’impostazione predominante in questi ultimi tempi è che un prodotto – di qualunque genere sia, quindi anche un prodotto artistico – deve reggersi in piedi da solo dal punto di vista economico. Questo fa sì che ciò che non è commerciale (sia nel senso migliore che nel senso più bieco del termine) non abbia alcuna possibilità di vita. Gran parte del pubblico è anestetizzata da messaggi pseudoculturali fuorvianti. Confonde il successo con la notorietà, ha bisogno di legare l’evento artistico al gossip, ha un senso critico molto affievolito e si fa abbindolare da battage pubblicitari che annunciano improbabili novelli Mozart. Non c’è da stupirsi se, nel migliore dei casi, il pubblico (e adesso sto parlando di quella parte del pubblico più colta, quella che all’opera o a un concerto, più o meno frequentemente, ci va) si rifugia in opere che come minimo hanno cento anni, e continua compulsivamente ad ascoltarle e riascoltarle in un ripiegamento su di sé che non ha speranza di evoluzione. Il fatto che ci siano trasmissioni radiofoniche (molto seguite dalle persone anche di una certa levatura culturale) dove il principale motivo d’interesse è il confronto fra le varie interpretazioni dello stesso pezzo, fino a rendere degno di segnalazione il particolare più insignificante – l’entità di un rallentato, o addirittura la durata di una corona! – dà la dimensione dell’abisso.
RC – Riguardo al difficile rapporto fra comunicazione e ricerca, come ti situi nella fondamentale relazione fra indagine compositiva e l’espressione?
CD – “Indagine compositiva” è una locuzione che mi evoca l’immagine di qualcosa di freddo, di pianificato al tavolino; una dimensione lontana dal mio sentire: l’espressività è ciò che mi guida. La ricerca, secondo me, deve essere funzionale alla comunicazione: la sperimentazione fine a se stessa mi interessa poco; credo che quella stagione della creazione musicale sia fondamentalmente terminata, e continuare a proporla oggi mi pare un’operazione più che altro – come ho detto altre volte – da “nostalgici”
RC – In relazione alla difficoltà di orientarsi, quali punti di riferimento hai avuto a livello compositivo? Dopo la morte dei grandi Maestri (Maderna, Nono, Donatoni, Berio ecc.) a chi può guardare oggi un giovane che intraprende gli studi della composizione?
CD – Agli studi di composizione in genere si accede in età più avanzata rispetto a quello che accade nel campo dell’esecuzione, per cui il principiante, in effetti, qualche problema relativo a quali modelli ispirarsi è facile che se lo ponga.
Per quanto mi riguarda devo dire che dopo una fase nella quale ascoltavo con voracità intellettuale tutto quello che mi capitava (e vale la pena di ricordare che negli anni Settanta le occasioni di ascoltare musica del proprio tempo erano infinitamente maggiori di adesso: non solo la Rai mandava in onda trasmissioni – sia in televisione, che per radio – di vario tipo inerenti la musica contemporanea, ma si organizzavano concerti e manifestazioni in una quantità che oggi appare impensabile; e dire che allora ci si lamentava perché sembrava troppo poco!), il primo autore che ho veramente ammirato e che mi ha realmente emozionato, che ho ascoltato per il piacere di sentire musica bella e non solo “interessante” è stato Krzysztof Penderecki. Ricordo ancora adesso, a distanza di quasi 40 anni, la viva impressione che mi fece l’ascolto in concerto del suo De natura sonoris. Non avevo mai ascoltato musica sua, anzi non lo conoscevo nemmeno. La scintilla scoppiò improvvisa e fu così che cercai di procurarmi tutti i dischi possibili di questo maestro.
Con tutto questo sento però di poter dire che nonostante l’ammirazione che provavo e che provo ancora per lui, non credo di averlo preso a modello.
Pensandoci bene non direi di avere eletto a mio personale punto di riferimento la produzione di un qualche autore. Semmai ho guardato a quello che è stato il mio maestro, Carlo Prosperi, ma solo per quello che riguarda la parte tecnica, il rigore professionale, e per tutto ciò che attiene alla dimensione etica della creazione artistica. Fra le tante cose che ho imparato da lui credo che una delle più importanti sia stato l’atteggiamento all’autocontrollo, per evitare il rischio di cadere nel male dell’autoreferenzialità, vera piaga del mondo culturale (o pseudoculturale) di oggi.
A parte qualche preoccupazione iniziale sul “quanto moderna” poteva essere la strada che stavo percorrendo, credo che ciò che mi ha guidato sia stato più che altro un concetto, un’idea (o forse sarebbe meglio dire un “ideale”?): l’espressività.
Sì, questo è un problema che ho risolto precocemente, anzi, forse la decisione dell’orientamento che avrei preso nel comporre è stata così rapida e sicura (in un periodo storico nel quale l’avanguardia non dava per niente per scontato che si dovesse essere per forza “espressivi”; si era in un periodo nel quale predominavano i concetti di “assenza di significato”, “alea”, e così via) che nemmeno ho il ricordo di una decisione non dico sofferta, ma almeno problematica. Probabilmente perché alla base di tutta la mia azione componistica c’è prima di tutto il bisogno di comunicare;
Quindi ad un giovane che abbia intenzione di cominciare a comporre, il consiglio che posso dare è quello di non avere altri punti di riferimento che se stesso, evitando il rischio di inconcludenti imitazioni.
RC – Si può davvero insegnare a comporre oppure si possono dare solo delle linee generali per lo studio?
CD – Mah, bisogna vedere che cosa significa “insegnare a comporre”. Se si intende di insegnare l’Arte, intesa come il raggiungimento di un prodotto che svisceri i reconditi recessi del proprio animo attraverso un percorso creativo, la risposta scontata: è un’operazione perduta in partenza, la creatività non si s’insegna…
Ma “comporre” vuol dire anche tante altre cose: c’è una enorme parte artigianale della composizione che si deve necessariamente imparare, altrimenti si brancola nel buio. E questo si può e si deve insegnare, eccome!
RC – In relazione al rapporto fra studio e libertà, vale di più un percorso didattico scolastico e rigoroso oppure le aperture di un libero cammino autodidattico?
CD – A mio parere questo è un falso problema. Si, anch’io negli anni di studio ho sentito più volte il peso dei compiti scolastici, delle composizioni “in stile”, che certo erano lontane da quello che avrei voluto fare nell’immediato. Ciò nondimeno sono grato ai miei maestri per l’impostazione rigorosa che ho ricevuto. Che poi tutto quello che mi è stato insegnato l’abbia anche messo in pratica è un altro discorso; anzi molte di quelle cose le ho rifiutate, com’è logico, ma le mie scelte sono avvenute a livello consapevole. E la consapevolezza è un tesoro che non ha prezzo.
Il “libero cammino autodidattico” temo che funzioni una volta su un milione. In tutti gli altri casi il principiante finisce per perdere del tempo prezioso. Insomma, è vero che ad ogni generazione l’umanità torna bambina, ma l’esperienza di chi ci ha preceduto (i nostri maestri) è preziosa e ci deve essere d’aiuto.
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